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Gli indirizzi, sembra strano, non sono sempre esistiti (e ancora oggi non esistono ovunque).

Prendiamo il caso di Roma antica. Le strade non avevano un nome, a eccezione delle più importanti: la via Lata, per esempio, che attraversava il Campo Marzio, o il vico Patricius, che congiungeva il centro della città alla Porta Viminalis passando per Mons Cispius.

E lungo le vie le case si susseguivano senza essere contrassegnate da un numero.

In queste condizioni, localizzare una ‘domus’ (vale a dire una casa familiare) o un ‘insula’ (casa di appartamenti) poteva essere un problema. Chi voleva spiegare agli amici come trovare la sua abitazione doveva ricorrere a giri di parole, peraltro, non sempre efficaci.

A dimostrarlo è intervenuto il ritrovamento di alcuni di quei terribili collari di ferro che i padroni usavano serrare al collo degli schiavi. O meglio, di alcuni schiavi, i cosiddetti ‘servi fuggitivi‘ quelli che avevano l’abitudine di tentare di fuggire. Per consentire a chi li avesse incontrati di riportarli al padrone, al polso o al collo di questi schiavi (il cui valore di mercato veniva diminuito da quella spiacevole abitudine, che andava dichiarata al momento della vendita), veniva serrato un bracciale o un collare al quale era saldato un dischetto (bulla) su cui era inciso l’indirizzo al quale si pregava di riportare il fuggitivo: “Riportami vicino al tempio di Flora, nella via dove stanno i barbieri” si legge su uno di essi. E su un altro: “Prendimi e riportami ad Approntano Latino, sull’Aventino vicino alla mappa d’oro”.

I romani di Roma

Insomma, non abitavano ‘in’, come noi, ma ‘vicino a’. Anche quando la via aveva un nome. Per individuare una casa sulla via Sacra, per esempio, era bene specificare che si trovava “sotto la Velia, dove è il tempio di Vica Pota”. Con tutta la buona volontà arrivare a destinazione al primo tentativo era tutt’altro che facile.

Un altro serio problema a Roma erano i rifiuti: una cosa è certa, non esisteva la raccolta differenziata. Ognuno provvedeva a eliminare i rifiuti nella maniera che gli era più comoda, senza curarsi delle conseguenze. “Se esci per le strade di notte” scriveva Giovenale “ogni finestra che si apre è una minaccia di morte: tutto quel che puoi fare è augurarti che si limitino a gettare solo il loro vaso da notte (III, 273 e seguenti)”.

Come sempre, Giovenale esagerava, ma forse neanche tanto. Quando non li gettavano dalla finestra, i romani abbandonavano i rifiuti per strada. In una città che aveva raggiunto le dimensioni di una metropoli, con quartieri popolari affollatissimi, l’eliminazione dei rifiuti era un problema molto serio, al cui controllo erano adibiti gli edili: alle loro dipendenze c’erano poi i funzionari incaricati viis purganti, vale a dire di pulire le strade. Ma i risultati non erano, per usare un eufemismo, del tutto soddisfacenti. In alcune stagioni le piene del Tevere, facevano riaffiorare nelle strade quel che era stato gettato nelle fogne, ivi comprese pelli e carogne di animali, con conseguente ammorbamento dell’aria e seri rischi di infezioni.

Le immondizie a Roma erano troppe: in una “lex Iulia Municipalis” del 45 a.c. si trova un riferimento a dei carri “stercoris esportando causa”, addetti, come dice il nome, a portare fuori città lo ‘stercum’. È un problema antico quello dello smaltimento dei rifiuti a Roma. Come quello degli edili…

Liberamente tratto da “Perfino Catone scriveva ricette” di Eva Cantarella

 

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Buona Vita

Antonio Leone

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